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L'ORTO DI EVELIEN LA SUD
di Pier Luigi Tazzi
Non di rado nel nostro improbabile secolo gli artisti hanno messo mano ad imprese che sembravano in apparenza - ma l'apparenza conta - lontane dal dominio e dalle vie dell'arte.
Il più delle volte tuttavia queste imprese in campi diversi da quello specificatamente artistico mostravano alla fine la corda (dell'arte). Si manifestava, di fatto, una qualche imperfezione rispetto ai codici che regolano l'ambito disciplinare o la pratica produttiva in cui l'artista aveva deciso di operare senza rinunciare alla propria artisticità, che anzi veniva portata là su quel terreno non suo.
Come se l'arte rispetto alla "realtà, alla scienza, alla tecnologia, alla produzione generale, presentasse sempre un di meno o un di più in grado di forzare ogni categoria.
Nei confronti del perfectum l'arte pone in altre parole un germe, una traccia, una breccia, una mancanza, una inosservanza, che aprono la clausura disciplinare.
Per cui non fui poco sorpreso alcuni anni fa quando mi trovai nell'orto che Evelien La Sud aveva messo su nella sua casa di Pastine in Val D'Elsa.
Fin da quando l'avevo conosciuta mi era riuscito difficile districare la sua "arte' dall'ambiente in cui viveva, casa, animali, figli e compagno, fino al punto che per molto tempo pensai più a 'loro' come artisti, che non a "lei", e alla "loro" arte stessa come ad un fenomeno, se non secondario, marginale, di una più vasta azione che mi sembrava avesse come scopo principale la trasformazione di un contesto ambientale, che riguardava, sì, quel luogo particolare, ma la cui essenza travalicava i limiti fisici per darsi come "presenza nel mondo".
Di conseguenza la fissità e le condizioni di esistenza erano materiali di essere e agire che li trascendeva. Insomma una sorta di Gesamtkunstwerk, a cui circostanze ambientali e persone insieme contribuivano.
Poi venne l'orto, ed era già cosa staccata da "loro", atto di una volontà individuale determinata.
L'orto serve a produrre prima di tutto nutrimento, e in seconda istanza bellezza. Per questo si stacca dalla casa, dall'ambientazione in cui vive: è al di fuori, anche se la distanza è breve. Sta fuori. E da fuori arrivano le sostanze nutritive, non dal dentro del corpo. E fino ad allora visto un corpo, composto di più membra, e tuttavia dotato di propria unità.
L'orto era bellissimo. Niente aveva a che fare con l'arido rigore toscano, né con quant'altro potesse ricordare la parsimonia rurale. Era florido come una giungla procace.
Poi mi venne detto che era stato costruito in base ad una metodologia inventata da botanici russi d'inizio secolo e sviluppata dopo la Rivoluzione di Ottobre per far fronte a pressanti problemi di alimentazione. Si trattava grosso modo di stabilire una complementarità fra le radici della pianta vicina. Questo faceva si che, da un lato, ciascuna pianta si rinforzasse e, dall'altro, che la terra rimanesse fertile. In questo modo la terra conservava la propria integrità e questa condizione ostacolava l'attacco dei parassiti. Certi accostamenti di diverse specie di piante servivano anche a debellarne le rispettive malattie a cui sarebbero state più facilmente soggette se isolate. Tutto questo era stato sì realizzato a partire da certe indicazioni iniziali, ma era poi proceduto per intuizione successiva e per una sorta di sapere acquisito attraverso l'esperienza diretta.
Entrare nell'orto o riceverne i suoi prodotti- Evelien me ne faceva spesso dono in abbondanza quando ci incontravamo- era attraversare una molteplicità di specie dove i frutti si mescolavano ai fiori e alle piante medicinali in una polifonia che si indirizzava a tutti e cinque i sensi.
Quando l'orto crebbe, arrivarono rospi, serpi, farfalle, che non si erano mai visti prima su quello stesso terreno. Si creò un micro-sistema umido, ombroso, colorato, profumato, ferace per tutte le specie che vi transitavano o che lo avevano eletto a dimora. Le piante della stessa specie, ma di tipi diversi, accentuavano se poste vicine le reciproche differenze, quasi che la loro natura le spingesse a ricercare. e a trovare, una distinzione.
Le catastrofi naturali - la grandine, le gelate, una calura persistente - non lo debellarono, ché anzi si dimostrò la determinazione naturale alla vita delle diverse specie e fu sempre gioiosa scoperta assistere alla linfa che riprendeva a scorrere nelle membra essiccate, bruciate e diverte, per portare a compimento quel che, in qualche modo, si potrebbe dire il loro rispettivo destino.
Da tempo ormai Evelien ha interrotto quell'impresa. Le sue cose, come la sua arte, hanno preso altre vie. Oggi quell'orto non esiste più come l'ho vissuto allora e ora descritto.
Quell'orto oggi, Evelien ve lo confermerà se glielo chiederete, oggi è un frutteto.
di Pier Luigi Tazzi
Non di rado nel nostro improbabile secolo gli artisti hanno messo mano ad imprese che sembravano in apparenza - ma l'apparenza conta - lontane dal dominio e dalle vie dell'arte.
Il più delle volte tuttavia queste imprese in campi diversi da quello specificatamente artistico mostravano alla fine la corda (dell'arte). Si manifestava, di fatto, una qualche imperfezione rispetto ai codici che regolano l'ambito disciplinare o la pratica produttiva in cui l'artista aveva deciso di operare senza rinunciare alla propria artisticità, che anzi veniva portata là su quel terreno non suo.
Come se l'arte rispetto alla "realtà, alla scienza, alla tecnologia, alla produzione generale, presentasse sempre un di meno o un di più in grado di forzare ogni categoria.
Nei confronti del perfectum l'arte pone in altre parole un germe, una traccia, una breccia, una mancanza, una inosservanza, che aprono la clausura disciplinare.
Per cui non fui poco sorpreso alcuni anni fa quando mi trovai nell'orto che Evelien La Sud aveva messo su nella sua casa di Pastine in Val D'Elsa.
Fin da quando l'avevo conosciuta mi era riuscito difficile districare la sua "arte' dall'ambiente in cui viveva, casa, animali, figli e compagno, fino al punto che per molto tempo pensai più a 'loro' come artisti, che non a "lei", e alla "loro" arte stessa come ad un fenomeno, se non secondario, marginale, di una più vasta azione che mi sembrava avesse come scopo principale la trasformazione di un contesto ambientale, che riguardava, sì, quel luogo particolare, ma la cui essenza travalicava i limiti fisici per darsi come "presenza nel mondo".
Di conseguenza la fissità e le condizioni di esistenza erano materiali di essere e agire che li trascendeva. Insomma una sorta di Gesamtkunstwerk, a cui circostanze ambientali e persone insieme contribuivano.
Poi venne l'orto, ed era già cosa staccata da "loro", atto di una volontà individuale determinata.
L'orto serve a produrre prima di tutto nutrimento, e in seconda istanza bellezza. Per questo si stacca dalla casa, dall'ambientazione in cui vive: è al di fuori, anche se la distanza è breve. Sta fuori. E da fuori arrivano le sostanze nutritive, non dal dentro del corpo. E fino ad allora visto un corpo, composto di più membra, e tuttavia dotato di propria unità.
L'orto era bellissimo. Niente aveva a che fare con l'arido rigore toscano, né con quant'altro potesse ricordare la parsimonia rurale. Era florido come una giungla procace.
Poi mi venne detto che era stato costruito in base ad una metodologia inventata da botanici russi d'inizio secolo e sviluppata dopo la Rivoluzione di Ottobre per far fronte a pressanti problemi di alimentazione. Si trattava grosso modo di stabilire una complementarità fra le radici della pianta vicina. Questo faceva si che, da un lato, ciascuna pianta si rinforzasse e, dall'altro, che la terra rimanesse fertile. In questo modo la terra conservava la propria integrità e questa condizione ostacolava l'attacco dei parassiti. Certi accostamenti di diverse specie di piante servivano anche a debellarne le rispettive malattie a cui sarebbero state più facilmente soggette se isolate. Tutto questo era stato sì realizzato a partire da certe indicazioni iniziali, ma era poi proceduto per intuizione successiva e per una sorta di sapere acquisito attraverso l'esperienza diretta.
Entrare nell'orto o riceverne i suoi prodotti- Evelien me ne faceva spesso dono in abbondanza quando ci incontravamo- era attraversare una molteplicità di specie dove i frutti si mescolavano ai fiori e alle piante medicinali in una polifonia che si indirizzava a tutti e cinque i sensi.
Quando l'orto crebbe, arrivarono rospi, serpi, farfalle, che non si erano mai visti prima su quello stesso terreno. Si creò un micro-sistema umido, ombroso, colorato, profumato, ferace per tutte le specie che vi transitavano o che lo avevano eletto a dimora. Le piante della stessa specie, ma di tipi diversi, accentuavano se poste vicine le reciproche differenze, quasi che la loro natura le spingesse a ricercare. e a trovare, una distinzione.
Le catastrofi naturali - la grandine, le gelate, una calura persistente - non lo debellarono, ché anzi si dimostrò la determinazione naturale alla vita delle diverse specie e fu sempre gioiosa scoperta assistere alla linfa che riprendeva a scorrere nelle membra essiccate, bruciate e diverte, per portare a compimento quel che, in qualche modo, si potrebbe dire il loro rispettivo destino.
Da tempo ormai Evelien ha interrotto quell'impresa. Le sue cose, come la sua arte, hanno preso altre vie. Oggi quell'orto non esiste più come l'ho vissuto allora e ora descritto.
Quell'orto oggi, Evelien ve lo confermerà se glielo chiederete, oggi è un frutteto.